Karl Marx

La legge contro i furti di legna

Gli articoli sulla «legge contro i furti di legna» furono scritti da Marx nell'ottobre del 1842 e apparvero anonimi sui numeri 298, 300, 303, 305 e 307 (25, 27, 30 ottobre, I e 3 novembre 1842) del quotidiano di Colonia Rheinische Zeitung (Gazzetta renana) con il titolo Verhandlungen des 6. Rheinischen Landtags. Von einem Rheinldnder. Dritter Artikel. Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz (Le discussioni alla sesta dieta renana. Secondo un renano. Terzo articolo. Dibattiti sulla legge contro i furti di legna).

Il testo è tratto dalle Opere complete di Marx ed Engels, a cura di Mario Cingoli e Nicolao Merker (Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 222-264).

Le note, tra parentesi quadra, sono collocate nel testo.

Dibattiti sulla legge contro i furti di legna

Fin qui abbiamo preso in esame due importanti questioni pubbliche discusse alla dieta: le sue agitazioni riguardo alla libertà di stampa e la sua mancanza di libertà riguardo alle agitazioni [Le «agitazioni» riguardo cui la dieta aveva mostrato la sua «mancanza di libertà» sono quelle originate dal conflitto fra Stato e Chiesa nella vicenda dell'arcivescovo di Colonia.]

Scendiamo ora a questioni più terra terra. Ma prima di passare alla questione veramente e propriamente terrena nella sua portata vitale, alla questione della parcellizzazione della proprietà terriera, vogliamo fornire al lettore alcuni quadri di genere, che riflettono da diversi punti di vista lo spirito della dieta, e, potremmo dire ancor meglio, la sua indole fisica.

In effetti la legge contro i furti di legna, come la legge contro gli abusi di caccia, forestali e campestri, meriterebbe di essere esaminata non solo in riferimento alla dieta, ma anche per se stessa. Ma il progetto di legge non è pubblicato. Il nostro materiale si limita a pochi emendamenti accennati dalla dieta e dalla sua commissione, riferiti a leggi che figurano soltanto come numeri di paragrafi. Gli stessi dibattiti della dieta sono comunicati in modo così manchevole, sconnesso ed infedele, che la loro comunicazione assomiglia a una mistificazione. Se dobbiamo giudicare dal torso mutilo a disposizione, la dieta ha voluto, col suo passivo silenzio, fare un atto di cortesia verso la nostra provincia.

Un fatto caratteristico delle discussioni in questione salta subito agli occhi. La dieta si è affiancata al legislatore di Stato in funzione di legislatore suppletivo. Sarà del più alto interesse illustrare con un esempio le qualità legislative della dieta. Da questo punto di vista il lettore ci perdonerà, se chiediamo pazienza e costanza, due virtù che la trattazione di questo sterile soggetto ha richiesto continuamente. Nelle discussioni della dieta sulla legge contro il furto di legna, noi esponiamo immediatamente le discussioni della dieta sulla sua attitudine a dar leggi.

Proprio all'inizio del dibattito un deputato delle città si oppose al titolo della legge, che estende la qualifica di «furto» alla semplice raccolta abusiva di legna.

Un deputato dei cavalieri ribatté:

Appunto perché non si considerava furto, l'asportazione di legna avveniva così di frequente.

In base a quest'analogia il medesimo legislatore dovrebbe concludere che gli schiaffi sono frequenti per il fatto che non sono giudicati assassini. Si decreti dunque che lo schiaffo è un assassinio.

Un altro deputato dei cavalieri trova

ancor più rischioso non usare il termine «furto», poiché la gente, che venisse a conoscere la discussione su questa parola, potrebbe essere facilmente indotta a credere che anche dalla dieta non venga ritenuta furto l'asportazione di legna.

La dieta deve decidere se giudica furto una raccolta abusiva di legna; ma se la dieta non la dichiarasse tale, la gente potrebbe credere che realmente la dieta non la consideri furto. Il partito migliore è pertanto di lasciar stare una controversia così pericolosa. Si tratta di un eufemismo, e gli eufemismi vanno evitati. Il proprietario di boschi non lascia parlare il legislatore, poiché le pareti hanno orecchi.

Lo stesso deputato va ancora oltre; egli giudica tutta questa disamina dell'espressione «furto» un «rischioso occuparsi, da parte dell'assemblea plenaria, di miglioramenti redazionali».

Dopo queste luminose dimostrazioni la dieta votò il titolo.

Dal punto di vista sopra raccomandato, che considera la trasformazione di un cittadino in un ladro come mera negligenza di formulazione e respinge ogni opposizione come purismo grammaticale, si capisce bene come anche l'asportazione di legna secca o la raccolta di legna caduta venga sussunta sotto la categoria furto e pertanto punita come l'asportazione di fusti di legna verde.

Veramente, il suddetto deputato delle città osserva:

Poiché la punizione potrebbe crescere fino a una lunga detenzione, proprio un simile rigore porterebbe sulla via del delitto gente che altrimenti rimarrebbe sulla buona strada; e questo avverrebbe anche per il fatto che in prigione costoro si troverebbero a convivere con ladri di professione. Egli ritiene pertanto che la raccolta o asportazione di legna secca caduta si debba punire semplicemente con provvedimenti di polizia.

Ma un altro deputato delle città adduce in contrario l'acuta osservazione

che nelle foreste della sua regione molti alberi giovani vengono dapprima soltanto intaccati, e più tardi, quando ciò li ha fatti morire, vengono poi trattati come legna caduta.

È impossibile lasciar cadere il diritto degli uomini di fronte al diritto dei giovani alberi in modo più elegante e ad un tempo più semplice. Da un lato l'accettazione dell'articolo porta necessariamente a recidere una quantità di uomini mondi di intenzioni delittuose dal verde albero della moralità e a buttarli come legna secca nell'inferno del delitto, dell'infamia e della miseria. Dall'altro, il ripudio dell'articolo comporta la possibilità che si danneggino alcuni alberelli; ed è quasi superfluo rilevare che gli idoli di legno trionfano e le vittime umane cadono!

L'antico diritto penale comprende sotto il titolo «furto di legna» solo l'asportazione di legna recisa e il taglio furtivo di piante. Sì, la nostra dieta non lo crederà:

Se però uno raccoglie di giorno frutti da mangiare, e col portarli via non produce danno molto rilevante, costui va punito in sede civile (dunque non penalmente) secondo la qualità delle persone e delle cose.

Il diritto penale del secolo XVI ci richiede di prendere le sue difese dall'accusa di eccessiva umanità contro una dieta renana del secolo XIX; e noi accogliamo questa richiesta.

Il raccogliere legna secca accostato al più architettato furto di legna! Un aspetto è comune ad entrambi: l'appropriarsi di legna altrui. Quindi in ambo i casi si tratta di furto. A ciò si riduce l'acuta logica che or ora ha emanato leggi.

Perciò richiamiamo anzitutto l'attenzione sulla differenza, e se devono concederci che la condizione dei fatti è diversa nell'essenza, sarà difficile affermare che essa dev'essere uguale secondo la legge.

Per appropriarsi di legna verde bisogna separarla a forza dal complesso organico di cui fa parte; e come ciò è un'aperta ingiuria all'albero, è altresì un'aperta ingiuria al proprietario dell'albero.

Se poi legna abbattuta viene sottratta ad un terzo, tale legna è un prodotto del proprietario. La legna abbattuta è già legna lavorata. In luogo della connessione naturale con la proprietà è subentrata la connessione artificiale. Pertanto chi sottrae legna abbattuta viola il diritto di proprietà.

Per contro, in caso di legna caduta, non viene tolto nulla alla proprietà. Si stacca dalla proprietà ciò che è già staccato da essa. Il ladro di legna emette un giudizio arbitrario contro la proprietà, mentre chi raccoglie legna caduta completa solo un giudizio che la natura stessa della proprietà ha già emanato; voi infatti possedete solo l'albero, ma l'albero non possiede più quei rami.

La raccolta di legna caduta e il furto di legna sono dunque cose essenzialmente diverse. L'oggetto è diverso, l'atto concernente l'oggetto è non meno diverso, anche l'intenzione deve essere dunque diversa. Infatti, con quale misura obiettiva dovremmo giudicare l'intenzione, se non con il contenuto dell'azione e la forma dell'azione? E nonostante questa differenza sostanziale, voilé dichiarate entrambe furto di legna e come furto di legna le punite entrambe. Anzi, voi punite la raccolta di legna caduta più gravemente del furto di legna vero e proprio, in quanto la punite già col dichiararla furto; una pena che evidentemente non imponete al furto stesso di legna. Avreste dovuto infatti definirlo legnicidio e punirlo come assassinio. La legge non è sciolta dall'universale dovere di dire la verità. Anzi vi è sottoposta doppiamente, poiché ad essa sola compete pronunciarsi in modo universale e autentico sulla natura giuridica delle cose. La natura giuridica delle cose non può dunque prendere a norma la legge, bensì questa deve attenersi a quella. Quando però la legge denomina furto di legna un'azione che non è nemmeno raccolta abusiva di legna, allora la legge mentisce ed il povero viene sacrificato ad una menzogna giuridica.

II y a deux genres de corruption, dice Montesquieu - l'un lorsque le peuple n'observe pas les lois; l'autre lorsqu'il est corrompu par les lois: mal incurable parce qu'il est dans le remède méme. [«Vi sono due generi di corruzione», dice Montesquieu, «l'uno quando il popolo non osserva le leggi, l'altro quando esso viene corrotto dalle leggi: male incurabile, poiché ha sede nel rimedio stesso»: Montesquieu, De l'esprit des lois, parte prima, libro VI, capitolo 12.]

Mentre non vi riuscirà di forzare la gente a credere che vi sia delitto dove delitto non v'è, riuscirete invece a trasformare il delitto in un atto legale. Avete cancellato i confini, ma vi sbagliate se credete che tale confusione avvenga solo a vostro vantaggio. Il popolo vede la punizione, ma non scorge il delitto, e poiché vede la punizione dove non esiste delitto, ben presto finirà per non veder più delitto dove è punizione. Con l'applicare la qualifica di furto dove non va applicata, siete riusciti a invalidarla anche nei casi dove andrebbe applicata.

E non si nega da sé questo brutale punto di vista, che in azioni diverse tiene conto soltanto di una caratteristica comune e astrae dalle differenze? Se qualunque offesa alla proprietà, senza distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata? Con la mia privata proprietà non escludo io ogni altro da questa proprietà? Non ledo in tal modo il suo diritto di proprietà? Se negate la differenza fra tipi essenzialmente diversi dello stesso reato, negate pure il delitto come differenza dal diritto, distruggete il diritto stesso, in quanto ogni delitto ha un lato in comune col diritto stesso. E ‘quindi un dato tanto storico quanto razionale che il rigore applicato senza gradazioni toglie ogni efficacia alla pena, poiché priva la pena stessa del suo carattere di effetto del diritto.

Ma perché insistere nella polemica? La dieta rigetta, è vero, la distinzione fra il raccogliere legna caduta, l'appropriazione abusiva di legna ed il furto di legna. Rigetta la distinzione dell'atto come determinante per l'atto stesso, finché si tratta dell'interesse dei contravventori alla legge forestale, ma ne tiene conto non appena si tratta dell'interesse dei proprietari di boschi.

Così la commissione propone in sovrappiù di considerare come circostanza aggravante il caso in cui si intacchi o recida legna verde con strumenti da taglio oppure, invece della scure, si usi la sega.

E la dieta approva questa distinzione. Le stesse menti tanto acute e scrupolose nel distinguere per il proprio interesse una scure da una sega, si mostrano poi tanto senza scrupoli da non distinguere nell'interesse altrui la legna caduta da quella verde. La differenza è significativa in quanto aggravante, ma diventa priva di significato come circostanza attenuante, sebbene non sia possibile un'aggravante dove è impossibile la relativa attenuante. La stessa logica ritorna píù volte nel corso del dibattito.

Circa il paragrafo 65 un deputato delle città auspica

che nel determinare la pena si possa adottare come criterio anche il valore della legna asportata, il che viene respinto dal relatore come poco pratico.

Lo stesso deputato cittadino osserva in merito al paragrafo 66:

Manca assolutamente in tutta la legge la determinazione di un valore in base al quale venga aumentata o diminuita.

L'importanza del valore per la determinazione della pena nei casi di violazione di proprietà è cosa evidente. Se il concetto di delitto richiede quello di pena, il delitto reale richiede una misura della pena. Il delitto reale è limitato. La pena deve altresì essere limitata per essere concreta, e deve inoltre essere limitata in base ad un principio giuridico per essere giusta. Il compito consiste appunto nel rendere la pena conseguenza reale del delitto. La pena deve apparire al reo come l'effetto necessario della sua azione, perciò come il suo proprio atto. I limiti della sua pena devono quindi essere i limiti della sua azione. L'effettivo contenuto dell'offesa è il limite dell'effettivo delitto, e pertanto la misura del delitto è data dalla misura di questo contenuto. Questa misura della proprietà è il suo valore. Mentre la personalità, in qualsiasi limite, è sempre totale, la proprietà esiste solo e sempre entro certi limiti, che non solo sono determinabili e misurabili, ma determinati e misurati. Il valore è l'esistenza civile della proprietà, il termine logico nel quale soltanto essa attinge intelligibilità e comunicabilità sociale. Si comprende bene come questa determinazione obiettiva, data tramite la natura stessa dell'oggetto, debba allo stesso modo costituire una determinazione obiettiva ed essenziale della pena. Se qui, dove si tratta di numeri, la legislazione può procedere solo superficialmente, per non smarrirsi in un'infinità di determinazioni, essa deve almeno dare una regola. Non importa che si sviscerino le distinzioni, bensì che queste si facciano. Ma la dieta non si è data la pena di dedicare la sua preziosa attenzione a simili piccolezze.

Credete ora di poter concludere che nel determinare la pena la dieta abbia completamente escluso il valore? Conclusione sconsiderata e priva di senso pratico! Il proprietario di boschi in seguito considereremo questo punto in maniera più ampia non solo si fa risarcire dal ladro il semplice valore generale; egli attribuisce al valore anche caratteri individuali e su questa poetica individualità basa l'esigenza di un particolare risarcimento al proprio danno. Comprendiamo adesso che cosa intende il relatore per «pratico». II pratico proprietario di boschi ragiona così: questa legge è buona in quanto mi è utile, poiché il mio utile è il bene. Quest'altra legge è superflua, dannosa, poco pratica, in quanto dev'essere applicata anche a pro dell'imputato in base a meri capricci teorici. Poiché l'accusato mi reca danno, si comprende da sé che mi rechi altresì danno tutto ciò che non lo porta a subire un danno maggiore. Questa è saggezza pratica.

Invece noi, uomini senza senso pratico, in difesa della massa povera, politicamente e socialmente diseredata, ricorriamo a ciò che il dotto e ammaestrato servitorame dei cosiddetti storici ha trovato come la vera pietra filosofale per trasformare ogni equivoca pretesa nell'oro schietto del diritto. Noi rivendichiamo alla povera gente il diritto consuetudinario, e non un diritto consuetudinario locale, ma un diritto consuetudinario che in tutti i paesi è il diritto consuetudinario della povera gente. Andiamo anche oltre, e affermiamo che il diritto consuetudinario per sua natura può essere solo il diritto di quest'infima massa diseredata e primordiale.

Le cosiddette consuetudini dei privilegiati si intendono come consuetudini contro il diritto. La data del loro sorgere risale al periodo in cui la storia dell'umanità costituisce una parte della storia naturale, quando cioè, come attestano i miti egiziani, tutte quante le divinità si nascondevano sotto un aspetto animale. L'umanità appare frantumata in determinate razze animali, il cui rapporto non è l'uguaglianza bensì la disuguaglianza, una disuguaglianza fissata dalle leggi. Il mondo della non libertà comporta diritti della non libertà; mentre infatti il diritto umano costituisce l'esistenza della libertà, il diritto animale è l'esistenza della non libertà. Il feudalesimo, in senso lato, è il regno animale dello spirito, il mondo dell'umanità disgiunta in opposizione al mondo dell'umanità differenziata, la cui disuaglianza non è altro che la gamma di rifrazione dell'uguaglianza. Nei paesi di feudalesimo ingenuo, nei paesi in cui vige la divisione in caste, dove l'umanità è incasellata nel vero senso della parola, e le nobili, liberamente organiche membra del gran santo, del santo Umano, sono spezzate, infrante, violentemente dilacerate, troviamo quindi anche l'adorazione delle bestie, la religione animale nella sua forma originaria, in quanto per l'uomo vale sempre come sua suprema essenza ciò che costituisce la sua essenza vera. L'unica uguaglianza che abbia luogo nella vita effettiva degli animali è l'uguaglianza di un animale con gli altri della sua stessa specie, della definita specie con se stessa; non già l'uguaglianza del genere. Negli animali la comunanza del genere si mostra soltanto nel comportamento ostile delle diverse specie, che fanno valere l'una contro l'altra le proprie differenti caratteristiche. E nello stomaco dell'animale feroce che la natura ha preparato il campo di battaglia per l'unificazione, la fucina per l'intima fusione, l'organo per la connessione delle diverse specie animali. Del pari nel feudalesimo ogni razza si pasce della razza inferiore, fino a quella che, simile ad un polipo, abbarbicata alla gleba, possiede solo le molte braccia per fornire i frutti della terra alle razze superiori, mentre per sé campa di polvere: infatti, mentre nel regno animale della natura i fuchi vengono uccisi dalle api operaie, nel regno animale dello spirito sono le api operaie a essere uccise dai fuchi, e proprio tramite il lavoro. Quando i privilegiati del diritto legale si appellano al proprio diritto consuetudinario, essi vogliono imporre, in luogo del contenuto umano, la configurazione bestiale del diritto, che è ora degradata a mera maschera animalesca.

I diritti consuetudinari nobiliari si oppongono per il loro contenuto alla forma della legge generale. Essi non possono assumere forma di legge, perché sono un prodotto della mancanza di leggi. Questi diritti consuetudinari, in quanto per il proprio contenuto contrastano con la forma della legge, con l'universalità e la necessità, dimostrano precisamente che si tratta di illegalità consuetudinarie e che non sono da far valere in opposizione alla legge, bensì da abrogare e anche eventualmente da punire come contrari alla medesima. Nessuno infatti cessa di agire illegalmente per il fatto che questo suo modo di agire costituisce una sua consuetudine, come il brigantesco figlio di un brigante non lo si scusa con la motivazione della sua idiosincrasia familiare. Se un uomo agisce intenzionalmente contro il diritto, si punisca la sua intenzione; se lo fa per consuetudine, si punisca questa sua consuetudine come cattiva consuetudine. All'epoca delle leggi universali, il diritto consuetudinario riconosciuto dalla ragione non è altro che la consuetudine del diritto legale, in quanto il diritto non ha cessato di essere consuetudine per il fatto di essersi costituito in legge, ma ha cessato di essere solo consuetudine. Esso diventa consuetudine per chi agisce secondo il diritto; e a chi lo viola, il diritto viene imposto, sebbene esso non sia una consuetudine di costui. Il diritto non dipende più dal caso fortuito che la consuetudine sia razionale, bensì la consuetudine diventa razionale in quanto il diritto è legale, in quanto la consuetudine stessa è diventata consuetudine di Stato.

Il diritto consuetudinario, come sfera privilegiata a fianco del diritto legale, è pertanto razionale solo quando il diritto esista a fianco e al di fuori della legge, quando la consuetudine rappresenti l'anticipazione di un diritto legale. Non si può pertanto nemmeno parlare di diritti consuetudinari delle classi privilegiate. Nella legge esse hanno trovato non solo il riconoscimento del loro diritto razionale, ma sovente anche il riconoscimento delle proprie prepotenze irrazionali. Esse non hanno alcun diritto di fare anticipazioni nei confronti della legge, poiché la legge ha anticipato tutte le possibili conseguenze del loro diritto. Tali privilegi vengono perciò pretesi anche solo come sfera privilegiata per i piccoli piaceri, affinché lo stesso contenuto, che nella legge viene trattato secondo i suoi limiti razionali, trovi nella consuetudine un campo per i capricci e le prepotenze contro i propri limiti razionali.

Ma mentre questi diritti consuetudinari della nobiltà sono consuetudini contro il concetto del diritto razionale, i diritti consuetudinari dei poveri sono diritti contro la consuetudine del diritto positivo. II loro contenuto non si oppone alla forma della legge, ma piuttosto alla sua propria mancanza di forma. La forma della legge non contrasta a tale contenuto, ma semplicemente quest'ultimo non è ancora pervenuto a quella forma. Basta riflettere un poco per rendersi conto di quanto unilateralmente le legislazioni dell'età dei lumi abbiano trattato e dovuto trattare i diritti consuetudinari dei poveri, la cui fonte più ricca possono considerarsi i diversi diritti germanici.

Nei riguardi del diritto privato le legislazioni più liberali si sono limitate a formulare in forma universale i diritti che trovano esistenti. Dove non ne trovarono alcuno, esse non ne formularono alcuno. Abolirono le consuetudini particolari, ma dimenticarono peraltro che, mentre il non-diritto dei ceti abbienti assumeva la forma di pretese arbitrarie, il diritto dei diseredati assumeva quella di concessioni casuali. Il loro modo di procedere era giusto contro coloro che fruivano di consuetudini oltre al diritto, ma era ingiusto contro coloro che godevano di consuetudini senza l'esistenza di un relativo diritto. Come trasformarono in diritti legali le pretese arbitrarie, per quel tanto di contenuto razionale che si trovava in esse, così avrebbero pure dovuto rendere obbligatorie le concessioni casuali. Possiamo chiarire la cosa con un esempio: quello dei monasteri. Si sono soppressi i monasteri, se ne è secolarizzata la proprietà, e si è agito giustamente. Ma gli aiuti contingenti, che i poveri trovavano nei monasteri, non sono stati affatto trasformati in altre fonti positive di sostentamento. Mentre si trasformava la proprietà dei monasteri in proprietà privata e in qualche misura si indennizzavano i monasteri, non si sono invece indennizzati i poveri, che dei monasteri vivevano. Anzi, si è imposto loro un nuovo limite e li si è privati di un antico diritto. Lo stesso avvenne in tutte le trasformazioni di privilegi di un antico diritto. Un aspetto positivo di questi abusi, aspetto che era pure un abuso in quanto riduceva a mero caso il diritto di una delle parti in causa, lo si è abolito non nel senso di elevare il caso ad obbligatorietà, bensì nel senso di non tenerne conto.

L'unilateralità di queste legislazioni era inevitabile, in quanto tutti i diritti consuetudinari della povera gente si basavano sui fatto che una certa proprietà possedeva un carattere equivoco, che non la definiva decisamente per proprietà privata e nemmeno come proprietà comune: una mistione di diritto privato e pubblico, come s'incontra in tutte le istituzioni medievali. L'organo con cui le legislazioni interpretarono tali ambigue istituzioni fu l'intelletto: e l'intelletto non solo è unilaterale, ma ha la funzione essenziale di rendere unilaterale il mondo, compito vasto e ammirevole, in quanto soltanto l'unilateralità forma ed estrae il particolare dall'inorganica nebulosa del tutto. Il carattere delle cose è un prodotto dell'intelletto. Ogni cosa si deve isolare e deve essere isolata per diventare qualcosa. Proprio in quanto fissa ogni contenuto del mondo in una solida determinatezza e per così dire pietrifica l'essere mutevole, l'intelletto produce la molteplicità del mondo, poiché il mondo non sarebbe multilaterale senza le molte unilateralità.

L'intelletto soppresse pertanto le ibride ed equivoche formazioni della proprietà, applicando le preesistenti categorie del diritto privato astratto il cui schema si trovava nel diritto romano. E l'intelletto legislatore credette tanto più di essere giustificato nel sopprimere le obbligazioni di questa equivoca proprietà nei riguardi della classe più povera, in quanto sopprimeva altresì i suoi privilegi statali; ma dimenticò che, anche dal punto di vista del mero diritto privato, si trattava in questo caso di un duplice diritto privato: un diritto del proprietario ed un diritto del nullatenente; astraendo poi dal fatto che nessuna legislazione ha mai abolito i privilegi pubblici della proprietà, ma li ha solo spogliati del loro carattere capricciosamente vario per sostituirvi un carattere borghese. Se però ogni forma medievale del diritto, quindi anche la proprietà, era sotto tutti i rapporti di essenza incerta, dualistica e discorde, e se l'intelletto faceva giustamente valere il proprio principio dell'unità contro queste determinazioni contraddittorie, non vide però che si dànno oggetti della proprietà che non possono mai raggiungere per loro natura il carattere della proprietà privata precedentemente determinata, oggetti che per la loro essenza elementare e la loro esistenza accidentale cadono sotto il diritto di occupazione di quella classe, appunto, che il diritto di occupazione esclude da tutte le altre proprietà, classe che nella società civile occupa lo stesso posto di tali oggetti nel mondo naturale.

Si troverà che le consuetudini comuni a tutta la classe povera sanno cogliere con sicuro istinto il lato dubbio della proprietà; si troverà non solo che questa classe sente l'impulso di soddisfare un bisogno naturale, ma altresì che sente il bisogno di soddisfare un impulso legittimo. La legna caduta ci serve da esempio. Essa è tanto poco in rapporto organico con l'albero vivente, quanto la pelle caduta col serpente. La natura stessa rappresenta nei rami e nelle fronde secchi e caduti, separati dalla vita organica, in contrapposto agli alberi e tronchi ben radicati, ricchi di linfa, che assimilano organicamente aria, luce, acqua e terra trasformandoli nella propria forma e vita individuale, il contrasto fra povertà e ricchezza. E un'immagine fisica della povertà e della ricchezza. La povertà umana sente questa affinità e da tale sentimento deduce il proprio diritto di proprietà: e perciò, mentre riconosce la ricchezza fisico-organica al proprietario legittimo, rivendica la miseria fisica al bisogno e alla casualità che gli è connessa. In questa attività delle forze elementari riconosce una forza amica, più umana degli uomini. In luogo dell'arbitrio casuale dei privilegiati è subentrata la casualità degli elementi, che strappano alla proprietà privata quanto essa non concede più volontariamente. Le elemosine che vengono gettate per la via, non spettano ai ricchi più di queste elemosine della natura. Ma già nella propria attività i poveri trovano il proprio diritto. Nel raccogliere, la classe elementare della società umana si pone di fronte ai prodotti delle forze elementari della natura con un atteggiamento che ad essi dà un ordine. Lo stesso si ha coi prodotti che nel loro crescere allo stato selvaggio rappresentano un accidente del tutto casuale della proprietà e inoltre, per il loro scarso valore, non costituiscono oggetto di attività per il vero proprietario; e lo stesso col racimolare, con lo spigolare e coll'esercitare simili diritti consuetudinari.

Vive dunque in queste consuetudini della classe povera un istintivo senso del diritto, la loro radice è positiva e legittima, e la forma del diritto consuetudinario è in questo caso tanto più conforme a natura, in quanto l'esistenza stessa della classe povera costituisce finora una mera consuetudine della società civile, che non ha ancora trovato un posto adatto nell'ambito dell' articolazione cosciente dello Stato.

La presente discussione offre un esempio immediato di come si trattino questi diritti consuetudinari, esempio nel quale si esprime fino in fondo il metodo e lo spirito di tutto il procedimento.

Un deputato delle città si oppone ad un articolo per cui anche la raccolta di bacche e mirtilli viene considerata un furto. Egli parla in particolare per i figli della povera gente, che raccolgono tali frutti per guadagnare una miseria per i propri genitori, il che da tempo immemorabile è permesso dai proprietari ed è pertanto diventato per i bambini un diritto consuetudinario. Questo fatto viene contraddetto da un altro deputato con l'affermazione che «nella sua regione questi frutti sono già articoli di commercio e vengono spediti a barili in Olanda».

In un luogo si è effettivamente già arrivati al punto di fare di un diritto consuetudinario dei poveri un monopolio dei ricchi. Siamo di fronte alla dimostrazione esauriente che si può monopolizzare un bene pubblico; ne segue perciò automaticamente che lo si deve monopolizzare. La natura dell'oggetto esige il monopolio, poiché l'ha scoperto l'interesse della proprietà privata. Il moderno capriccio di pochi avidi mercantucoli diventa inconfutabile, non appena esso offre queste briciole all'atavica avidità teutonica della proprietà terriera.

Il saggio legislatore impedirà il delitto per non doverlo punire, ma non lo impedirà creando impedimenti alla sfera del diritto, bensì eliminando l'essenza negativa di ogni istinto giuridico coll'aprire ad esso una sfera positiva di attività. Non si limiterà a rimuovere l'impossibilità per i componenti di una classe di entrare a far parte di una sfera di diritti più ampi, ma eleverà la classe stessa a una reale possibilità di diritti. E se a ciò lo Stato non è abbastanza umano, ricco e saggio, è almeno suo incondizionato dovere non mutare in un delitto ciò di cui solo le circostanze fanno una trasgressione. Esso deve correggere con la massima mitezza come disordine sociale quanto solo con la massima ingiustizia potrebbe punire come reato antisociale. Diversamente esso combatte l'istinto sociale, credendo di combattere la forma antisociale del medesimo. In una parola, quando si soffocano diritti consuetudinari popolari, se ne possono punire le manifestazioni soltanto trattandole come mere contravvenzioni alle disposizioni di polizia, mai come delitti. La punizione di polizia è l'espediente contro un atto di cui le circostanze fanno un disordine esterno, senza che tale atto costituisca un'offesa all'ordine immutabile del diritto. La punizione non deve ispirare più orrore dell'infrazione; l'infamia del delitto non deve mutarsi nell'infamia della legge; il terreno statale è minato quando la sfortuna diventa un delitto o il delitto una sfortuna. Ben lontana da questo punto di vista, la dieta non osservò nemmeno le regole elementari della legislazione.

L'anima meschina, arida, insipida ed egoista dell'interesse vede solo un punto, il punto in cui essa viene offesa, come l'uomo rozzo, che ad esempio giudica un passante la più infame e riprovevole creatura della terra, perché questa creatura gli ha pestato i calli. Costui fa dei suoi calli gli occhi [Gioco di parole fra il tedesco «Huhneraugen» («calli», ma letteralmente «occhi di pollo») e «Augen» («occhi»)] con cui vede e giudica; fa di quel solo punto, in cui il passante l'ha toccato, l'unico punto in cui l'essenza di quest'uomo è a contatto col mondo. Orbene, un uomo può ben pestarmi i calli senza cessare per questo di essere un uomo onesto ed anche insigne; e come non giudicate gli altri relativamente ai vostri calli, così non dovete giudicarli in base al vostro interesse privato. L'interesse privato trasforma in sfera vitale di un uomo la singola sfera in cui qualcuno collide con quell'interesse. Fa della legge un cacciatore di topi, che vuole sterminare gli animali nocivi, poiché non è un naturalista e vede perciò nei topi soltanto animali nocivi. Ma lo Stato ha il dovere di vedere in chi asporta legna qualcosa di più del mero ladro di legna, di più del nemico della legna. Ognuno dei suoi cittadini non è forse legato allo Stato da mille nervi vitali? E può lo Stato recidere tutti questi nervi perché un cittadino ne ha reciso di propria volontà uno solo? Anche in uno che asporta legna lo Stato deve vedere un uomo, un membro vivente, in cui scorre il sangue del proprio cuore, un soldato che deve difendere la patria, un testimone la cui parola deve valere dinanzi ai tribunali, un membro della comunità che deve assolvere funzioni pubbliche, un padre di famiglia la cui esistenza è sacra, anzitutto un cittadino dello Stato. E lo Stato non escluderà con leggerezza uno dei propri membri da tutte queste determinazioni, poiché lo Stato amputa se stesso ogniqualvolta fa di un cittadino un delinquente. Ma il legislatore morale, soprattutto, considera come la più seria, dolorosa e delicata delle operazioni quella di classificare nell'ambito dell'attività delittuosa un'azione finora irreprensibile.

Ma l'interesse è pratico, e nulla v'è di più pratico nel mondo che l'abbattere i propri nemici! «Chi odia una cosa e non la distrugge volentieri?» già ci insegna Shylock [Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto quarto, scena I]. Il vero legislatore non deve temere altro che l'ingiustizia; ma l'interesse legiferante conosce soltanto il timore per le conseguenze del diritto, il timore davanti agli scellerati contro cui legifera. La crudeltà è il carattere delle leggi dettate dalla viltà, poiché la viltà riesce a essere energica solo con l'essere crudele. L'interesse privato è però sempre vile, poiché il suo cuore, la sua anima è riposta in un oggetto esterno, che sempre può esser strappato e danneggiato; e chi non trema di fronte al pericolo di perdere cuore e anima? Come potrebbe mai mostrarsi umano il legislatore interessato, se l'inumano, un essere materiale estraneo, costituisce la sua intima essenza? «Quando ha paura, è terribile», dice di Guizot il «National». Questo motto si può scrivere in fronte a tutte le legislazioni dettate dall'egoismo e quindi dalla viltà.

I samoiedi, quando uccidono un animale, giurano allo stesso con la massima serietà, prima di levargli la pelle, che solo i russi gli causano questo male, che un coltello russo lo taglia e che quindi soltanto sui russi debba ricadere la vendetta. Si può trasformare la legge in un coltello russo, anche senza aver la pretesa di essere un samoiedo. Vediamo come.

Al paragrafo 4 la commissione propose:

Quando la distanza è superiore alle due miglia, il sorvegliante che ha sporto denuncia determina il valore in base al prezzo locale.

A questo proposito protestò un deputato delle città:

Sarebbe molto pericoloso lasciar determinare il valore della legna aspettata dalla guardia forestale che fa la denuncia. Certo le denunce di queste guardie sono degne di fede; tuttavia solo rispetto al fatto, non già rispetto al valore. Quest'ultimo dovrebbe essere determinato da una tariffa proposta dalle autorità locali e stabilita dal presidente del distretto. E stato proposto, è vero, che non venga accolto il paragrafo 14, per cui il proprietario del bosco dovrebbe incassare la multa, ecc... Se si volesse conservare il paragrafo 14, allora l'articolo in questione diverrebbe doppiamente pericoloso. Invero la guardia forestale al servizio del proprietario di boschi e da costui stipendiata stabilirebbe il prezzo della legna asportata al livello più alto possibile, com'è naturale, dato il rapporto con il proprietario.

La dieta approvò la proposta della commissione.

Troviamo qui costituita la giurisdizione patrimoniale [La «giurisdizione patrimoniale» era il privilegio che il signore feudale aveva di amministrare la giustizia all'interno dei propri domini. Era stata nuovamente sancita e riconosciuta dal «Diritto generale» prussiano del 1794.]

Il sorvegliante della proprietà patrimoniale è ad un tempo giudice e parte. La determinazione del valore costituisce un elemento del giudizio. Il verdetto è pertanto già in parte anticipato nel verbale di denuncia. Il sorvegliante che fa la denuncia siede nel collegio dei giudici, è l'esperto, al cui giudizio il tribunale è legato; egli esercita una funzione da cui esclude i rimanenti giudici. E’ follia opporsi al procedimento inquisitorio, se esistono addirittura gendarmi patrimoniali e denuncianti che fanno a un tempo da giudici.

Astraendo da questa violazione fondamentale delle nostre istituzioni, è ovvio quanto poco il sorvegliante che fa la denuncia, se consideriamo le sue qualità, possegga la capacità obiettiva di valutare altresì la legna asportata.

Come sorvegliante egli personifica il genio tutelare del bosco. La protezione, e soprattutto quella fatta di persona, col proprio corpo, richiede un rapporto d'amore efficace ed energico del guardaboschi col suo protetto, un rapporto in cui egli per così dire concresce con la legna. Per lui la legna deve essere tutto, deve costituire il valore assoluto. Il compilatore della tariffa per contro si comporta con scettica diffidenza verso la legna asportata, la misura con occhio acuto e prosaico, secondo criteri profani, e vi dice al soldo e centesimo quanto essa vale.

Un protettore e uno stimatore son cose tanto diverse quanto un mineralogo e un mercante di minerali. Il sorvegliante non può fare la stima della legna asportata, poiché in ogni verbale in cui fa la stima della legna rubata, egli valuta il proprio valore, poiché quello è il valore della propria attività; e credete voi che non proteggerà il valore del suo oggetto quanto la sostanza di esso?

Le attività che si affidano ad un uomo che ha per dovere d'ufficio di essere brutale, si contraddicono non solo in rapporto all'oggetto della sorveglianza, ma altresì in rapporto alle persone.

Come sorvegliante forestale il guardaboschi deve proteggere l'interesse del proprietario privato, ma come perito egli deve del pari proteggere l'interesse del raccoglitore contro le eccessive pretese del proprietario privato. Forse, mentre con i pugni agisce nell'interesse del bosco, deve contemporaneamente agire con la testa nell'interesse del nemico del bosco. Egli, che è l'interesse personificato del proprietario di boschi, deve rappresentare una garanzia contro l'interesse del proprietario medesimo.

Il sorvegliante è inoltre denunciante. Il verbale è una denuncia. Il valore dell'oggetto diventa quindi oggetto della denuncia; perde il proprio decoro giudiziario, e la funzione del giudice viene profondamente avvilita in quanto non si differenzia più per nulla dalla funzione del denunciante.

Infine questo sorvegliante enunciante, che né come denunciante, né come sorvegliante è adatto a fare da perito, è al servizio e al soldo del proprietario forestale. Con lo stesso diritto si potrebbe affidare la stima al proprietario stesso sotto vincolo di giuramento, poiché di fatto nel suo sorvegliante egli ha soltanto assunto la forma di una terza persona.

Ma invece di ritenere anche solo dubbia questa posizione di un sorvegliante-denunciante, la dieta al contrario trova dubbia l'unica determinazione che ancora costituisce l'ultima apparenza di autorità statale nella cerchia dei privilegi forestali, ossia l'incarico a vita del sorvegliante. Contro questo punto si solleva l'opposizione pii violenta, e non pare affatto che la tempesta si calmi per il chiarimento dei relatore:

che già diete precedenti avevano raccomandato la rinuncia all'incarico a vita, ma che il governo vi si è sempre opposto ed ha visto nell'incarico a vita una protezione per i sudditi.

Dunque già prima la dieta ha mercanteggiato coi governo a proposito della rinuncia alla protezione dei sudditi, ed insiste in tale mercato. Esaminiamo le ragioni tanto generose quanto irrefutabili, che vengono fatte valere contro l'incarico a vita.

Un rappresentante dei comuni rurali

trova che l'impiego a vita come condizione di attendibilità compromette gravemente i piccoli proprietari di boschi, ed un altro insiste sul fatto che la protezione deve essere egualmente efficace per i piccoli come per i grandi proprietari.

Un rappresentante del ceto dei principi osserva

che l'impiego vitalizio presso i privati è molto sconsigliabile e in Francia non è affatto necessario per conferire attendibilità ai verbali dei sorveglianti, ma che si dovrebbe assolutamente fare qualcosa per reprimere il moltiplicarsi dei misfatti.

Un deputato delle città:

Si deve dar fede a tutte le denunce di guardie forestali regolarmente incaricate e vincolate da giuramento. L'impiego a vita è per così dire impossibile per molti comuni e in particolare per i piccoli proprietari. Con la disposizione secondo cui risultano attendibili solo le guardie forestali impiegate a vita, questi piccoli proprietari verrebbero privati di ogni protezione. In molte zone della provincia i comuni e i proprietari privati hanno affidato alle guardie campestrianche la sorveglianza forestale, e devono farlo, perché la loro proprietà forestale non è estesa abbastanza per preporvi sorveglianti propri. Sarebbe ora ben curioso che queste guardie campestri, che hanno anche giurato come guardie forestali, non dovessero aver credito indiscusso quando constatano un furto di legna, mentre si dà loro fede allorché denunciano la scoperta di una semplice trasgressione forestale.

Dunque città, campagna e principi hanno parlato. Invece di livellare la differenza fra i diritti dei trasgressori e le pretese dei proprietari di boschi, si trova che tale differenza non è grande abbastanza. Non si cerca la protezione del proprietario e del trasgressore, si cerca di portare allo stesso livello la protezione del grande e del piccolo proprietario. In questo caso deve essere legge la più scrupolosa uguaglianza, mentre nell'altro caso la disuguaglianza vale come assioma. Perché il piccolo proprietario esige la stessa protezione del grande? Perché entrambi sono proprietari Non sono forse entrambi, il proprietario di boschi ed il trasgressore, cittadini dello Stato? Se questo vale per il piccolo e il grande proprietario, non hanno ancor più un egual diritto alla protezione dello Stato il piccolo e il grande cittadino?

Quando il rappresentante dei principi si richiama alla Francia - l'interesse non conosce antipatie politiche - si dimentica soltanto di aggiungere che in Francia il sorvegliante denuncia il fatto, non già il valore. Così l'onorevole oratore delle città dimentica che la testimonianza della guardia campestre è qui inammissibile, poiché non si tratta soltanto di constatare un'asportazione di legna, ma altresì di fare la stima del valore della legna.

A che cosa si riduce in sostanza tutto il ragionamento che abbiamo ascoltato? Che il piccolo proprietario non ha i mezzi per mantenere un sorvegliante a vita. Che deriva da questo ragionamento? Che il piccolo proprietario forestale non vi ha titolo. Che ne conclude il piccolo proprietario forestale? Che è autorizzato a dare l'incarico ad

un sorvegliante-stimatore licenziabile La sua mancanza di mezzi vale per lui quale titolo a un privilegio.

Il piccolo proprietario inoltre non ha i mezzi per mantenere un indipendente collegio di giudici. Dunque Stato e accusato rinuncino a un collegio di giudici indipendente e lascino al servo del piccolo proprietario, o se non ha servi alla sua serva, o se non ha serva a lui stesso di fare da giudice. L'accusato non ha forse lo stesso diritto tanto nei riguardi del potere giudiziario quanto nei riguardi del Potere esecutivo, nel senso che sono entrambi organi dello Stato? Perché dunque non adattare anche il tribunale ai mezzi del piccolo proprietario forestale?

Forse che il rapporto fra lo Stato e l'accusato può essere alterato per la meschina situazione economica di un privato, cioè del proprietario di boschi? Lo Stato ha un diritto contro l'accusato, perché si oppone a questo individuo in quanto Stato. Ne consegue immediatamente per esso il dovere di comportarsi verso il reo come Stato e nei modi dello Stato. Non solo lo Stato possiede i mezzi per agire in modo conforme tanto alla sua ragione, alla sua universalità e dignità, quanto al diritto, alla vita e alla proprietà del cittadino incriminato; ha altresì l'incondizionato dovere di possedere e impiegare questi mezzi. Dal proprietario di boschi, il cui bosco non è lo Stato e la cui anima non è l'anima dello Stato, questo non lo pretenderà nessuno. Che ne consegue? Che, poiché la proprietà privata non ha i mezzi per elevarsi al punto di vista dello Stato, lo Stato ha il dovere di abbassarsi ai mezzi del proprietario privato, contrari alla ragione e al diritto.

Questa arroganza dell'interesse privato, la cui meschina anima non fu mai illuminata e penetrata dall'idea dello Stato, costituisce una lezione seria e fondamentale per lo Stato. Quando lo Stato, anche in un solo punto, si abbassa tanto da agire, anziché nel modo che gli è proprio, nel modo della proprietà privata, ne segue immediatamente che nella forma dei propri mezzi esso deve adattarsi ai limiti della proprietà privata. L'interesse privato è abbastanza furbo da potenziare questa conseguenza fino al punto di porsi esso, nella sua forma più ristretta e meschina, a limite e regola dell'azione statale; dal che segue viceversa, astraendo dall'avvilimento completo dello Stato, che contro l'accusato vengono messi in moto i mezzi più contrari alla ragione e al diritto, poiché l'eccessivo rispetto per l'interesse della ristretta proprietà privata si ribalta necessariamente in un'enorme mancanza di rispetto per l'interesse dell'accusato.

Ma se appare qui chiaro che l'interesse privato degrada lo Stato a strumento dell'interesse privato, come non dovrebbe seguirne che una rappresentanza degli interessi privati, dei ceti, voglia e debba degradare lo Stato ai fini dell'interesse privato? Ogni Stato moderno, per quanto poco risponda al proprio concetto, al primo tentativo pratico di un simile potere legislativo sarà costretto ad esclamare: le tue vie non sono le mie, i tuoi fini non sono i miei! Che l'assunzione temporanea del sorvegliante autorizzato a compiere denunce sia del tutto insostenibile non lo possiamo dimostrare in modo più evidente, che con un motivo fatto valere contro l'impiego a vita, e non possiamo dire trattarsi di una svista, poiché ne venne data pubblica lettura. Un rappresentante delle città recitò infatti la seguente osservazione:

Le guardie forestali a vita dei comuni non stanno e non possono stare sotto stretto controllo come gli impiegati regi. Ogni incentivo ad un fedele adempimento del proprio dovere viene paralizzato dalla condizione dell'impiego a vita. Se il sorvegliante adempie anche solo per metà il proprio dovere ed evita che gli si possa imputare una effettiva mancanza, troverà sempre tante intercessioni, che la proposta di licenziamento in base al paragrafo 56 riuscirà varia. In tali circostanze gli interessati non oseranno nemmeno avanzare la proposta.

Ricordiamo come al sorvegliante incaricato della denuncia si attribuisse la più piena fiducia, quando si trattava di affidargli anche la stima del danno. Ricordiamo che il paragrafo 4 rappresentava un voto di fiducia a favore del sorvegliante.

Per la prima volta impariamo che il sorvegliante richiede un controllo, ed uno stretto controllo. Per la prima volta ci è presentato non solo come un uomo, ma come un cavallo; in quanto solo gli sproni e il pane costituiscono incitamenti per la sua coscienza, mentre i suoi muscoli del dovere vengono da un impiego a vita non solo allentati, ma completamente parali. L'egoismo, come si vede, possiede due pesi e due misure per pesare e misurare gli uomini, due concezioni del mondo, due occhiali, dei quali l'uno tinge tutto di scuro, l'altro tutto di chiaro. Dove gli serve lasciare gli altri uomini in balia dei suoi strumenti e abbellire mezzi che sono equivoci, allora l'egoismo inforca gli occhiali chiari, che gli presentano i suoi strumenti e mezzi in un nimbo di gloria, allora illude se stesso e gli altri con un'aerea e piacevole fantasia da anima delicata e fiduciosa. Ogni piega del suo viso esprime una sorridente bonomia. Stringe la mano del suo avversario fino a ferirla, ma lo fa in segno di fiducia. Ma ecco che improvvisamente si tratta del suo proprio vantaggio dietro le quinte dove scompaiono le illusioni del palcoscenico si tratta di soppesare con circospezione l'utilità degli strumenti e dei mezzi. Diventato un conoscitore di uomini esigente, guardingo e diffidente, l'egoismo inforca i prudenti occhiali neri, gli occhiali della pratica. Come un esperto sensale di cavalli, esso sottopone gli uomini a una lunga e accurata ispezione, ed essi gli appaiono tanto piccoli, tanto meschini e tanto sporchi quanto lo è l'egoismo stesso.

Non vogliamo discutere con la concezione del mondo che ha l'egoismo, ma vogliamo costringerla a essere conseguente, Non vogliamo che essa tenga per sé la pratica del mondo mentre lascia agli altri le fantasticherie. Inchiodiamo, per un attimo lo spirito sofistico dell'interesse privato alle sue proprie conseguenze.

Se il sorvegliante incaricato della denuncia è l'uomo da voi descritto, ossia un uomo a cui l'impiego a vita, ben lontano dal conferire sentimento d'indipendenza, sicurezza e dignità nell'adempimento del suo dovere, toglie ogni impulso in questo senso, che cosa dobbiamo attenderci dall'imparzialità di quest'uomo verso l'accusato, non appena egli sia diventato lo schiavo incondizionato del vostro arbitrio? Se soltanto gli sproni costringono quest'uomo al dovere, e tali sproni sono in mano vostra, che cosa dobbiamo prevedere per l'accusato, che non ha sproni? Se neanche voi stessi siete in grado di controllare quest'uomo in maniera adeguatamente rigida, come potrebbe controllarlo lo Stato o la parte perseguita? Nel caso della revocabilità della carica non vale anzi proprio quello che voi affermate a proposito dell'impiego a vita: «Se il sorvegliante adempie solo per metà il proprio dovere, troverà sempre tante intercessioni, che la proposta di licenziamento in base al paragrafo 56 riuscirà vana»? Non sarete voi nei suoi riguardi altrettanti intercessori, finché egli adempie quella sola metà del proprio dovere, ossia la tutela del vostro interesse?

La trasformazione dell'ingenua e straripante fiducia verso la guardia forestale in gretta e cavillosa diffidenza scopre le vostre batterie: non nella guardia forestale, ma in Voi stessi avete riposto la gigante fiducia in cui Stato e accusato devono credere come in un dogma.

Non l'incarico ufficiale, non il giuramento, non la coscienza del guardaboschi devono costituire la garanzia dell'accusato contro di voi, no, bensì il vostro senso giuridico, la vostra umanità, il vostro disinteresse, la vostra discrezione devono costituire la garanzia dell'accusato contro il guardaboschi. Il vostro controllo è la sua ultima e unica garanzia. Nella nebulosa rappresentazione della vostra eccellenza personale, in una poetica autoesaltazione offrite all'interessato le vostre individualità come strumento di difesa contro le vostre leggi. Confesso di non condividere questa romanzesca rappresentazione dei proprietari di boschi. Non credo assolutamente che gli individui possano costituire una garanzia contro le leggi, penso anzi che le leggi debbano costituire una garanzia contro gli individui. E anche la fantasia più sbrigliata come potrà mai immaginarsi che diventino filosofi in faccia al concreto pericolo quegli stessi uomini che nell'elevato lavoro della legislazione non riescono a sollevarsi nemmeno un momento dallo stato d'animo opprimente e bassamente pratico dell'egoismo per assurgere all'altezza teoretica di un punto di vista generale e obiettivo, quegli stessi uomini che già tremano al pensiero del danno futuro e ricorrono ad ogni mezzo per mascherare il proprio interesse? Ma a nessuno, nemmeno al più eccellente legislatore, è lecito porre la propria persona al di sopra della legge. Nessuno è autorizzato a decretare a se stesso voti di fiducia, che comportano conseguenze per terzi.

E i fatti seguenti possono provare se vi sia stato lecito esigere che vi si desse una qualche fiducia particolare.

Al paragrafo 87 dichiara un deputato delle città egli deve opporsi, in quanto le disposizioni in esso contenute darebbero occasione a lunghe ed infruttuose ricerche, lesive della libertà personale e della libertà di scambio. Non si dovrebbe dunque giudicare in anticipo che ciascuno sia un delinquente e presumere un'azione malvagia, finché non si abbia la prova che tale azione sia stata davvero compiuta.

Un altro deputato cittadino dichiara che detto paragrafo va cancellato. La clausola vessatoria di esso: «ognuno deve provare la provenienza della legna che ha», è una grossolana e offensiva intrusione nella vita civile, poiché ciascuno risulta sospetto di furto e ricettazione. Il paragrafo venne approvato.

Davvero chiedete troppo all'incoerenza umana, se volete che essa proclami quale regola la sfiducia a proprio danno e la fiducia a vostro vantaggio, se deve vedere la sua fiducia e sfiducia con gli occhi del vostro interesse privato e sentirle con il cuore del vostro interesse privato.

Viene ancora portata un'altra ragione contro l'impiego a vita, una ragione che non saprebbe dire nemmeno lei se sia più spregevole o ridicola:

Non si può limitare in tal modo la libera volontà dei privati e perciò si dovrebbero ammettere solo cariche revocabili.

Certo è consolante quanto inattesa la notizia che l'uomo possiede una volontà libera che non si deve limitare in alcun modo. Gli oracoli, che prima abbiamo uditi, assomigliavano all'antico oracolo di Dodona. Il legno li diffondeva. Al libero volere non ineriva nessuna qualità di ceto. Come possiamo ora interpretare questa improvvisa e ribelle comparsa dell'ideologia, quando davanti a noi non abbiamo nei confronti delle idee altro che seguaci di Napoleone?

La volontà del proprietario di boschi richiede la libertà di poter trattare il trasgressore forestale secondo il proprio comodo e nel modo più conveniente e meno costoso. Questa volontà vuole che lo Stato le abbandoni il reo a discrezione. Esige pieni poteri. Non si oppone alla limitazione della libera volontà, si oppone al modo di questa limitazione, che si estende tanto da colpire non solo il trasgressore forestale, ma anche il proprietario di legna. Non vuole questo volere libero molte libertà? Non è un volere molto libero, libero per eccellenza? E non è inaudito che nel secolo XIX si osi limitare «in tale e tanto modo» la libera volontà di quei cittadini privati che promulgano pubbliche leggi? E veramente inaudito.

Anche l'ostinato riformatore, il volere libero, deve entrare al seguito delle buone ragioni, guidate dalla sofistica dell'interesse. Soltanto deve questo libero volere possedere modi civili, deve essere un libero volere cauto e leale, un libero volere che sappia comportarsi in modo tale che la sua sfera coincida con la sfera dell'arbitrio di quei privati privilegiati. Una sola volta si cita il libero volere, e quest'unica volta esso ci si presenta nella forma di una tozza persona privata che scaglia blocchi di legno allo spirito del volere razionale. E che conterebbe del resto questo spirito, dove la volontà è legata come un galeotto al banco di voga dei più piccoli e meschini interessi?

II vertice di tutto questo ragionamento si riassume nella seguente osservazione, che capovolge il rapporto in discussione:

Anche se i guardaboschi e guardacaccia regi possono essere impiegati a vita, ciò suscita i pii grandi dubbi presso i comuni e i privati.

Come se l'unico dubbio e pericolo non consistesse nel fatto che qui si tratta di impiegati privati anziché di impiegati statali! Come se l'impiego a vita non fosse appunto diretto contro la dubbia figura della persona privata! Nulla è più terribile della logica nell'assurdità, ossia nulla è più temibile che la logica dell'egoismo.

Questa logica, che trasforma il dipendente del proprietario forestale in un'autorità statale, trasforma l'autorità statale in un dipendente del proprietario. La struttura dello Stato, l'ufficio delle singole autorità amministrative, tutto deve essere sconvolto, affinché tutto decada a strumento del proprietario di boschi ed il suo interesse risulti l'anima che determina tutto il meccanismo. Tutti gli organi dello Stato diventano orecchi, occhi, braccia, gambe, con cui l'interesse del proprietario di boschi ascolta, spia, valuta, provvede, afferra e cammina.

Al paragrafo 62 la commissione propone quale conclusione la richiesta di un certificato di insolvibilità rilasciato dall'agente delle tasse, dal borgomastro e da due consiglieri del comune di residenza del trasgressore. Un deputato dei comuni rurali trova che l'intervento dell'agente delle tasse è in contraddizione con la legislazione vigente. Va da sé che di questa contraddizione non venne tenuto conto.

Al paragrafo 20 la commissione aveva proposto:

Nella provincia renana si deve concedere al legale proprietario di boschi il diritto di assegnare i detenuti all'autorità locale per eseguire lavori forzati in modo tale che le loro giornate di lavoro vengano conteggiate in deduzione di quelle che il proprietario è obbligato a fornire per la manutenzione delle strade comunali.

Venne obiettato «che i borgomastri non si potevano impiegare come esecutori a vantaggio di singoli membri del comune, e che i lavori dei carcerati non si potevano valutare come equipollenti ai servizi che si dovevano eseguire con manovali pagati a giornata o con altri dipendenti».

Il relatore nota: «Se anche rappresenta un carico per i signori borgomastri il tenere al lavoro carcerati svogliati e mal disposti, fa però parte delle funzioni di questi magistrati il ricondurre al dovere gli amministrati disobbedienti e di cattiva volontà; e non sarebbe una bella azione il ricondurre un delinquente sulla retta via? Chi altro nel paese ha maggiori mezzi a disposizione, per questo scopo, dei signori borgomastri?».

E la Volpe aveva un modo di fare così inquieto e dolente da muovere a compassione molti uomini dal cuore tenero; la Lepre specialmente era molto in ansia. [Goethe, Reineke Fuchs (La volpe Renardo), canto VI, vv. 152-54]

La dieta accolse la proposta.

Il buon signor borgomastro deve addossarsi un nuovo carico e compiere una bella azione, affinché il signor proprietario di boschi possa assolvere il proprio obbligo verso il comune senza sopportare nuove spese. Con lo stesso diritto il proprietario di boschi potrebbe ricorrere al borgomastro per farne un sovrintendente alle cucine o un capocameriere Non sarebbe una buona azione se il borgomastro tenesse in efficienza le cucine e le cantine dei suoi amministrati? Il delinquente condannato non è un amministrato del borgomastro, è un amministrato del sovrintendente alle carceri. Il borgomastro non perde appunto i mezzi e la dignità della sua Posizione, se da capo della comunità si fa di lui l'esecutore a vantaggio di un singolo membro di essa, se da borgomastro che era si fa di lui un sorvegliante di disciplina? Non vengono offesi gli altri liberi membri del comune, se il loro onorato lavoro in servizio della comunità viene abbassato a lavoro punitivo in servizio di singoli individui?

Ma è tempo perso mettere in luce queste sofisticherie. Il signor relatore dovrebbe essere tanto buono da dirci egli stesso come la gente pratica del mondo giudica le chiacchiere umane. Egli fa polemizzare in questo modo un proprietario di boschi contro l'umanitario proprietario di campi:

Se ad un proprietario terriero venisse portata via qualche spiga, il ladro direbbe: «Io non ho pane, perciò prendo alcune spighe dal gran mucchio che ella possiede», come anche il ladro di legna direbbe: «Io non ho legna per ardere, perciò la rubo» Il proprietario terriero è protetto dall'articolo 444 del codice penale, che commina una pena dai due ai cinque anni di reclusione contro la mietitura abusiva di messi; il proprietario di boschi non gode di una protezione tanto efficace.

In quest'ultima esclamazione di bieca invidia del proprietario di boschi si racchiude tutta una professione di fede. Proprietario di campi, come mai ti mostri così generoso quando si tratta del mio interesse? Perché si è già provveduto al tuo interesse. Nessuna illusione dunque!

O la generosità non costa nulla o porta qualche utile. Dunque, proprietario di campi, tu non inganni il proprietario di boschi! Dunque, proprietario di boschi, non cercare di ingannare il borgomastro!

Questo solo intermezzo basterebbe a provare quanto poco senso possano avere nel nostro dibattito le «belle azioni», se l'intero dibattito non mostrasse che qui i motivi morali ed umanitari trovano impiego soltanto come parole. Ma l'interesse è avaro anche di parole. Le va a inventare soltanto se sono necessarie, se hanno conseguenze notevoli. Allora esso diventa fecondo, il sangue gli scorre più veloce nelle vene, giunge perfino alle belle azioni, che a lui fruttano e costano agli altri, giunge alle parole adulatrici, alle delicatezze insinuanti, e tutto ciò viene usato soltanto per fare del trasgressore forestale una moneta più vantaggiosa per il proprietario di boschi, per farne un ladro redditizio, per poter impiegare più comodamente il capitale, dato che il ladro è diventato per il proprietario di boschi un vero e proprio capitale. Non si tratta perciò di abusare del borgomastro per il bene del trasgressore forestale, si tratta invece di abusarne per il bene del proprietario di boschi. Che sorte meravigliosa, che fatto straordinario: nei rari momenti in cui si accenna soltanto ad un bene problematico per il trasgressore, si assicura un bene apodittico per il signor proprietario di boschi!

Ancora un esempio di questi momenti incidentali di umanità:

Relatore: La legge francese non riconosce la trasformazione della pena del carcere in lavoro forestale, mentre io la ritengo una saggia e opportuna disposizione, poiché la detenzione in carcere non porta sempre al miglioramento, ma molto sovente al peggioramento dell'individuo.

Prima, quando di un innocente si faceva un delinquente, quando un deputato osservava a proposito dei raccoglitori di legna caduta che li si metteva a contatto nel carcere coi delinquenti abituali, allora le carceri erano una buona cosa. Improvvisamente gli istituti di miglioramento si sono trasformati in istituti di peggioramento, poiché in questo momento è opportuno per l'interesse del proprietario di boschi che le prigioni peggiorino l'individuo. Per miglioramento dei delinquenti s'intende un aumento dell'utile che essi hanno il compito magnanimo di apportare al proprietario di boschi.

L'interesse non ha memoria, poiché pensa solo a se stesso. L'unica cosa di cui gl'importi, se stesso, questa non la dimentica. Ma non gli importa delle contraddizioni, poiché non si trova mai in contraddizione con se stesso. E un costante improvvisatore, poiché non ha sistema, ma ha espedienti.

Mentre le ragioni umanitarie e giuridiche non fanno più di

ce qu'au bal nous autres sots hurnains,

nous appelons faire tapisserie

[Quel che al ballo noi, sciocchi uomini,

chiamiamo far tappezzeria]

gli espedienti sono gli elementi più attivi nel meccanismo del ragionamento utilitario. Fra questi espedienti ne rileviamo due, che si ripetono con insistenza in questo dibattito e costituiscono le categorie fondamentali: i «buoni motivi» e le «conseguenze dannose». Vediamo che ora il relatore della commissione, ora un altro membro della dieta ricoprono ogni disposizione equivoca dagli strali dell'opposizione sotto lo scudo di sperimentati, saggi e buoni motivi. Vediamo che ogni conclusione richiesta dal punto di vista giuridico viene respinta col richiamarsi alle conseguenze dannose o pericolose. Soffermiamoci un momento su questi comodi espedienti, su questi espedienti par excellence, su questi espedienti buoni per tutti gli usi.

L'interesse sa bene come dipingere a fosche tinte il diritto, facendo ricorso alla prospettiva delle sue conseguenze dannose, dei suoi effetti sul mondo esterno; e sa pure come ammantare di candore l'ingiustizia per mezzo dei buoni motivi, ossia ritornando all'intimità del suo mondo ideale. Il diritto ha cattive conseguenze nel mondo esterno tra gli uomini cattivi, l'ingiustizia trova buoni motivi nel cuore dell'uomo onesto che la decreta; ma entrambi, i buoni motivi e le cattive conseguenze, hanno in comune la peculiarità di non considerare la cosa in rapporto a se stessa, di non trattare il diritto come un oggetto a sé stante, ma di sconfinare dal diritto o nel mondo esterno o nella testa del singolo, e dunque di manovrare alle spalle del diritto.

Che cosa sono le conseguenze dannose? Che con questa espressione non si debba intendere alcun danno per lo Stato, per la legge e per gli imputati, è dimostrato da tutta la nostra esposizione. Che inoltre fra le conseguenze dannose non sia compresa alcuna conseguenza dannosa per la sicurezza civile, è cosa che vogliamo render evidente in poche parole.

Abbiamo già udito proprio dai membri della dieta come la clausola «che ognuno deve provare la provenienza della legna che ha» sia una grossolana e offensiva intrusione nella vita civile ed esponga ogni cittadino a cavilli vessatori. Un altro articolo definisce ladro chiunque abbia in custodia legna rubata, sebbene un deputato osservi:

Questo potrebbe riuscire pericoloso per molte persone perbene. Può darsi che si getti legna rubata nel cortile di qualcuno, e che venga punito un innocente.

Il paragrafo 66 condanna ad una reclusione da quattro settimane a due anni ogni cittadino che comperi una scopa che non sia di monopolio; al che un deputato delle città commentava:

Questo paragrafo minaccia di prigione tutti quanti senza eccezione gli abitanti dei distretti di Elberfeld, Lennep e Solingen.

Infine della sorveglianza e dell'attività della polizia venatoria e forestale si è fatto un diritto e un dovere militare, sebbene l'art. 9 della procedura penale riconosca solo impiegati dipendenti dal procuratore dì Stato, e pertanto punibili direttamente da questi, il che non avviene nel caso dell'esercito. E con ciò si minaccia tanto l'indipendenza della magistratura, quanto la libertà e la sicurezza dei cittadini.

Ben lungi dunque dal menzionare dannose conseguenze per la sicurezza civile, questa stessa sicurezza viene trattata come una circostanza gravida di conseguenze dannose.

In che consistono dunque queste conseguenze dannose? E dannoso ciò che è dannoso per l'interesse del proprietario di boschi. Pertanto, ogniqualvolta le conseguenze del diritto non rappresentano un vantaggio per il suo interesse, sono conseguenze dannose. E qui l'interesse ha la vista acuta. Se poco fa non vedeva ciò che scorgono gli occhi nudi, adesso vede addirittura ciò che si rivela solo al microscopio. Il mondo intero gli fa l'effetto di una spina in un occhio, è un mondo di pericoli, precisamente perché non è il mondo di quel solo interesse, ma dei molti interessi. L'interesse privato si considera come il fine del mondo. E pertanto se il diritto non realizza questo fine, è un diritto controproducente. Un diritto dannoso per l'interesse privato è dunque un diritto pieno di conseguenze dannose.

Forse che i buoni motivi dovrebbero esser migliori delle conseguenze dannose?

L'interesse non pensa, calcola. I motivi sono i suoi numeri. Il motivo è un movente per negare i fondamenti giuridici; e chi può mettere in dubbio che l'interesse privato avrà molti motivi per far questo? La bontà del motivo consiste nell'elasticità opportunistica con cui sa rimuovere il dato di fatto obiettivo e cullare sé e gli altri nell'illusione che non si debba pensare alla cosa buona, ma basti il pensiero buono mentre si fa una cosa cattiva.

Riprendendo il filo del nostro discorso, vediamo innanzitutto un aspetto che fa riscontro alle belle azioni raccomandate al signor borgomastro.

Il paragrafo 34 venne presentato dalla commissione in questa diversa forma: Se la comparsa del sorvegliante che fa il verbale viene provocata dall'imputato, questi deve versare in precedenza presso il tribunale forestale le spese relative.

Lo Stato e il tribunale non devono far nulla gratuitamente nell'interesse dell'imputato. Devono anzi farsi pagare in precedenza, col che evidentemente già in precedenza diventa più difficile il confronto del sorvegliante denunziatore coll'imputato.

Una bella azione! Una sola bella azione! Un regno per una bella azione! Ma l'unica bella azione proposta deve compierla il signor borgomastro a vantaggio del signor proprietario di boschi. Il borgomastro è il rappresentante delle belle azioni, ne è l'espressione personificata, e col peso che con doloroso sacrificio fu imposto al borgomastro si è esaurita e chiusa per sempre la serie delle belle azioni.

Poiché il signor borgomastro deve fare più del proprio dovere in servizio dello Stato e per il miglioramento morale del delinquente, non dovrebbero forse i signori proprietari di boschi, in vista di quel medesimo bene, esigere meno di quel che il loro interesse richieda?

Si potrebbe credere che la risposta a questa domanda sia già compresa nella parte finora considerata del dibattito, ma ci si sbaglierebbe. Passiamo alla determinazione delle pene.

Un deputato dei cavalieri ritenne che il proprietario di boschi fosse pur sempre non sufficientemente risarcito, quand'anche, oltre al rimborso del valore puro, gli toccassero le multe, che sovente risulterebbero inesigibili.

Un rappresentante delle città osserva:

Quanto stabilito da questo paragrafo (par. 15) potrebbe portare alle più pericolose conseguenze. Il proprietario forestale riceverebbe in questo modo un triplice risarcimento, ossia il valore, una multa quadrupla sestupla od ottupla, e in più un indennizzo speciale, che sovente verrebbe determinato in modo del tutto arbitrario e sarebbe assai più il risultato di una finzione che della realtà. In ogni modo si dovrebbe, a suo parere, ordinare che la richiesta dello speciale indennizzo in questione fosse del pari avanzata dinanzi al tribunale forestale e sancita nella sentenza. E ben naturale che la prova del danno la si debba fornire a parte e non la si possa basare semplicemente sul verbale.

In risposta a ciò, il relatore e un altro membro spiegarono come il plusvalore qui citato possa aversi in diversi casi da essi indicati. Il paragrafo venne accolto.

Il reato diventa una lotteria, da cui il proprietario forestale, se la fortuna vuole, può persino trarre un profitto. Può darsi che ci sia un plusvalore ma può anche darsi che, oltre a ricevere il valore netto, egli faccia un affare con l'ammenda quadrupla sestupla od ottupla. Se poi riceve un indennizzo speciale in più del valore netto, l'ammenda quadrupla sestupla od ottupla rappresenta in ogni modo un puro guadagno. Se un membro del ceto dei cavalieri ritiene che le eventuali ammende non costituiscano una sufficiente garanzia, in quanto sovente non sono riscotibili, esse comunque non diventano tali se, oltre ad esse, si deve ancora riscuotere il valore e l'indennizzo. Vedremo peraltro come si riesca a togliere le spine a questa inesigibilità.

Come potrebbe mai il proprietario di boschi assicurare meglio la propria legna di quanto gli è riuscito qui, dove il crimine è stato trasformato in una rendita? Esperto condottiero, egli trasforma l'attacco portato contro di lui in un'immancabile occasione di vittorioso profitto, poiché perfino il Plusvalore della legna, questa fantasticheria economica, si trasforma col furto in concreta sostanza. Al proprietario forestale dev'essere garantita non solo la legna, ma anche il buon affare sulla legna, mentre il comodo omaggio che egli tributa al suo amministratore, lo Stato, consiste nel fatto di non pagarlo. E’ una trovata splendida che la punizione del delitto si trasformi, da vittoria del diritto contro gli attentati al diritto, in una vittoria dell'egoismo contro gli attentati all'egoismo.

Richiamiamo in particolare l'attenzione dei nostri lettori sulla disposizione del paragrafo 14, disposizione che ci deve liberare dall'abitudine di considerare le leges barbarorum come leggi di barbari. Ossia la pena come tale, in quanto restaurazione del diritto, che è ben da distinguere dal risarcimento del valore e dall'indennizzo, ovvero dalla restaurazione della proprietà privata, si trasforma da pena pubblica in una composizione privata; le multe non fluiscono nella cassa dello Stato, ma nella Cassa privata del proprietario forestale.

Un rappresentante delle città osserva sì che «ciò contraddice alla dignità dello Stato ed ai principi di una buona giustizia penale»; ma un deputato della nobiltà «si appella al senso del diritto e di equità dell'assemblea a difesa dell'interesse del proprietario forestale», dunque ad un senso partigiano del diritto e dell'equità.

I popoli barbarici ordinano che per un determinato reato venga pagata alla parte lesa una determinata somma di denaro a titolo di conciliazione. Il concetto della pena pubblica sorse solo in contrasto a questa concezione che nel reato scorgeva unicamente un'offesa fatta al l'individuo; ma sono ancora da scoprire quel popolo e quella teoria che siano tanto compiacenti da arrogare all'individuo la pena privata e quella pubblica.

Un totale qui pro quo deve aver sedotto i rappresentanti provinciali. Il proprietario forestale in veste di legislatore scambiò per un momento le due persone, se stesso come legislatore e se stesso come proprietario. Una prima volta si fece pagare la legna come proprietario, e una seconda volta, come legislatore, la mentalità delittuosa del ladro, col che, proprio per caso, avvenne che ambedue le volte fosse il proprietario dei boschi ad essere pagato. Dunque non siamo più semplicemente in cospetto del semplice diritto signorile. Tramite l'epoca del diritto, siamo pervenuti all'epoca del diritto patrimoniale raddoppiato e potenziato. I possidenti patrimoniali sfruttano il procedere del tempo, che è la confutazione delle loro pretese, per usurpare ad un tempo la pena privata della concezione del mondo barbarica e la pena pubblica della concezione del mondo moderna.

Col risarcimento del valore ed inoltre con uno speciale indennizzo non esiste più alcun rapporto fra ladro di legna e proprietario di boschi, poiché la trasgressione forestale è completamente annullata. Entrambi, ladro e proprietario, sono ritornati nell'integrità della loro condizione iniziale. Il proprietario forestale è leso dal furto di legna solo in quanto viene danneggiato il bosco, non già in quanto viene offeso il diritto. Soltanto il lato sensibile del delitto lo tocca; mentre l'essenza delittuosa dell'azione non consiste nell'attentato al legno materiale, bensì nell'attentato alla venatura statale del legno, al diritto di proprietà come tale, nell'attuazione dell'intenzione ingiusta. Il proprietario forestale ha forse diritti privati sull'intenzione giuridica del ladro? E che altro significherebbe la moltiplicazione della pena in caso di recidiva, se non una punizione dell'intenzione delittuosa? O il proprietario forestale può avanzare richieste private dove non ha diritti privati? Il proprietario forestale era forse, prima del furto, lo Stato? No, ma lo diventa dopo. La legna possiede la rimarchevole qualità, non appena viene rubata, di procacciare al suo proprietario qualità statali ch'egli prima non possedeva. Il proprietario può tuttavia riavere solo ciò che gli è stato preso. Se in restituzione gli viene dato lo Stato, il che avviene effettivamente quando egli ottiene contro il ladro oltre il diritto privato anche il diritto pubblico, bisogna che sia stato derubato dello Stato, bisogna che lo Stato fosse una sua proprietà privata. Il ladro di legna portava dunque, novello Cristoforo, lo Stato stesso sulle proprie spalle dentro i tronchi di legna rubati.

La pena pubblica costituisce il pareggiarsi del reato con la ragione statale, essa è quindi un diritto dello Stato, ma un diritto che lo Stato può cedere a cittadini privati tanto poco quanto un individuo può abbandonare ad altri la propria coscienza. Ogni diritto dello Stato contro il delinquente è ad un tempo un diritto di Stato del delinquente. Il suo rapporto verso lo Stato non si può tramutare in un rapporto verso privati per nessuna intromissione di termini medi. Quand'anche si riconoscesse allo Stato la facoltà di rinunciare al proprio diritto, cioè di suicidarsi, la rinuncia al proprio dovere sarebbe pur sempre non solo una negligenza, ma un delitto.

Pertanto il proprietario forestale può tanto poco ottenere tramite lo Stato un diritto privato sulla pena pubblica, quanto poco egli possiede al riguardo un diritto comunque pensabile in sé e per sé. Ma se dell'azione delittuosa di un terzo mi faccio, in assenza di qualunque titolo giuridico, una sorgente di utile personale non divento forse coì un suo complice? O sono meno suo complice per il fatto che a lui tocca la pena e a me l'utile del delitto? La colpa non risulta diminuita se un privato abusa della propria qualità di legislatore per arrogarsi, sfruttando il delitto di un terzo, i diritti dello Stato. Le malversazioni di denaro pubblico sono un delitto contro lo Stato. E i proventi delle multe non sono forse denaro appartenente alla cosa pubblica?

Il ladro ha sottratto legna al proprietario forestale, ma questi ha utilizzato il ladro per appropriarsi dello Stato medesimo. Che ciò sia vero alla lettera, lo prova il paragrafo 19, con cui non ci si limita ad avanzare pretese sulla multa, ma altresì sul corpo e sulla vita dell'accusato. In base al paragrafo 19 il trasgressore forestale viene dato completamente in mano al proprietario per il lavoro forestale da eseguire per costui. Il che, secondo un deputato delle città,

potrebbe portare a gravi inconvenienti; egli vuole soltanto richiamare l'attenzione sul pericolo che comporterebbe l'applicazione di questo articolo nel caso di persone dell'altro sesso.

Un deputato dei cavalieri pronuncia la replica eternamente memorabile:

Nella discussione di un progetto di legge è certamente tanto necessario quanto opportuno discuterne e fissarne anzitutto i principi; ma poi, quando ciò è fatto, non ci si può ritornare su nella discussione di ogni singolo paragrafo.

E con questo il paragrafo venne accettato senza opposizione.

Purché siate abbastanza abili da prendere le mosse da cattivi principi, otterrete un titolo giuridico non impugnabile sulle cattive conseguenze. Potete, è vero, credere che la nullità del principio si manifesti nel carattere abnorme delle sue conseguenze, ma se avete esperienza del mondo, vi renderete conto che l'uomo furbo sfrutta fino alle ultime conseguenze quanto gli è riuscito una volta. Ci meraviglia soltanto che al proprietario forestale non sia anche concesso di accendere le proprie stufe con i ladri di legna. Poiché la questione non concerne il diritto, ma i principi da cui ama muovere la dieta, ad una simile conseguenza non si opporrebbe la minima difficoltà.

In diretto contrasto col dogma testé addotto, un breve sguardo retrospettivo ci insegna quanto sarebbe stato necessario discutere da capo i principi ad ogni paragrafo; come, facendo votare paragrafi apparentemente senza flesso e tenendoli ad opportuna distanza l'uno dall'altro, si sia carpita una disposizione dopo l'altra; e come, carpiti i primi, si sia lasciata cadere nei successivi anche l'apparenza della condizione che sola rendeva accettabili quegli altri.

Quando nel paragrafo 4 si trattò di concedere al sorvegliante incaricato della denuncia anche la stima del valore, un rappresentante delle città osservò:

Se non venisse accettata la proposta di lasciare alle casse statali la multa, la precedente disposizione diventerebbe doppiamente pericolosa.

Ed è chiaro che la guardia forestale non ha lo stesso incentivo a sovrastimare quando agisce per lo Stato di quando agisce per il proprio padrone. Furono subito disposti a non porre in discussione questo punto, lasciarono credere che il paragrafo 14, che destina l'ammenda al proprietario, potesse essere cassato. Si fece passare il paragrafo 4. Dopo la votazione di dieci paragrafi si giunse infine al paragrafo 14, tramite il quale il paragrafo 4 assume un senso diverso e pericoloso. Questa connessione non viene toccata, il paragrafo 14 è accettato, ed il provento delle multe viene destinato alla cassa privata del proprietario forestale. Il fondamento principale anzi l'unico fondamento addotto, è l'interesse del proprietario di boschi che, si dice, non verrebbe sufficientemente coperto dal risarcimento del mero valore. Ma al paragrafo 15 si dimentica di nuovo che si è votata l'attribuzione delle multe al proprietario di boschi e si decreta in suo favore, oltre al mero valore, anche uno speciale indennizzo perché un plusvalore era da prendere in considerazione, come se il proprietario non avesse già ricevuto un di più con la multa. Si fece notare, perfino, che le multe non sono sempre esigibili. Si finse dunque di voler surrogare lo Stato solo rispetto al denaro; ma al paragrafo 19 si getta la maschera e si rivendica non solo il denaro, ma il delinquente stesso, non solo la borsa dell'uomo, ma l'uomo stesso.

A questo punto il metodo surrettizio si presenta netto ed aperto, addirittura con autocosciente chiarezza, poiché non esita più a proclamarsi come principio.

Il mero valore e l'indennizzo consentivano evidentemente al proprietario forestale di accampare solo una pretesa privata sul trasgressore forestale, e per darle esecuzione gli erano aperti i tribunali civili. Ma se il trasgressore non può pagare, il proprietario forestale si trova nella situazione di ogni privato che ha un debitore insolvibile e quindi, com'è noto, non possiede alcun diritto a lavori forzati, a prestazioni servili, in una parola a un temporaneo possesso corporale del debitore. Che base ha dunque il proprietario forestale per questa pretesa? La multa. In quanto ha rivendicato a sé la multa, egli ha rivendicato, come abbiamo visto, oltre il proprio diritto privato, un diritto pubblico sul trasgressore e si è sostituito allo Stato. Ma mentre si aggiudicava la pena in denaro, il proprietario forestale teneva astutamente nascosto di essersi aggiudicata la pena stessa. Prima si riferiva alla pena in denaro in quanto semplice denaro; ora egli vi si riferisce in quanto pena, riconosce ora, trionfante, che per mezzo della multa egli ha trasformato il diritto pubblico in sua proprietà privata. Invece di indietreggiare spaventati davanti a questa conseguenza non meno delittuosa che rivoltante, si esige la conseguenza proprio perché è una conseguenza. Se il buon senso afferma che contraddice al nostro e a ogni diritto concedere ed abbandonare un cittadino ad un altro in temporaneo possesso corporale, si risponde scuotendo le spalle che i principi sono stati discussi, sebbene non si siano avuti né principi né discussione. In questo modo il proprietario forestale attraverso la multa carpisce la persona del trasgressore forestale Il paragrafo 19 non fa che manifestare il doppio senso del paragrafo 14.

Così si vede che il paragrafo 4 avrebbe dovuto esser impossibile in virtù del paragrafo 14, il paragrafo 14 in virtù del paragrafo 15, il 15 in virtù del 19, e il 19 avrebbe dovuto esser impossibile in assoluto e avrebbe dovuto rendere impossibile l'intero criterio punitivo, proprio perché in esso si palesa completa la malvagità di tale criterio.

Il divide et impera non si potrebbe applicare più abilmente. Nel paragrafo che viene prima non si pensa al successivo, e nel successivo si dimentica quello che precede. L'uno è già discusso e l'altro non lo è ancora, sicché entrambi sfuggono ad ogni discussione per motivi opposti. Ma il principio riconosciuto è «il senso del diritto e dell'equità a difesa dell'interesse del proprietario forestale», principio che si contrappone direttamente al senso del diritto e dell'equità a difesa dell'interesse di chi è proprietario della vita, della libertà, dell'umanità, dello Stato, di chi è proprietario di nient'altro che di se stesso.

Dunque siamo a questo punto: il proprietario forestale riceve in luogo del ceppo di legno quello che una volta era un uomo.

Shylock: O sapientissimo giudice, la sentenza è stata pronunciata. Sbrigatevi.

Porcia: Aspetta un momento: c'è ancora da osservare una cosa. Il documento non ti concede nemmeno una goccia di sangue; le parole sono categoriche: una libbra di carne. Prendi dunque il documento e con esso una libbra di carne; ma se tagliando tu versi anche solo una goccia di sangue cristiano, secondo la legge di Venezia ogni tuo avere cade in possesso dello Stato veneto.

Graziano: O saggio giudice! Guarda, ebreo! Un giudice saggio davvero.

Shylock: E questa la legge?

Porcia: Guarda tu stesso gli atti.

[Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto quarto, scena I.]

E guardate gli atti anche voi!

Su che fondate voi la pretesa alla proprietà sul corpo del trasgressore forestale? Sulle multe. Abbiamo mostrato che voi non avete alcun diritto ad esse. Ma prescindiamo da questo. Qual è il vostro principio basilare? Che l'interesse del proprietario di boschi va assicurato, anche se dovesse per ciò andare in rovina il mondo del diritto e della libertà. Per voi è incrollabilmente stabilito che il vostro danno forestale va compensato in qualche modo dal trasgressore forestale. Questo rigido sostegno ligneo del vostro ragionamento è così fradicio, che un unico soffio di vento della sana ragione lo sgretola in mille frammenti.

Lo Stato può e deve dire: io garantisco il diritto contro tutte le casualità. Per me è immortale soltanto il diritto, e perciò vi provo la caducità del delitto precisamente col fatto che lo sopprimo. Ma lo Stato non può e non deve dire che un interesse privato, una determinata esistenza della proprietà, una riserva forestale, un albero, una scheggia di legno (e di fronte allo Stato il più grosso albero non è nemmeno una scheggia) sono garantiti contro tutte le casualità, sono immortali. Nulla può lo Stato contro la natura delle cose, non può rendere invulnerabile il finito contro le condizioni stesse del finito, contro il caso. Come lo Stato non poté garantire la vostra proprietà contro ogni accidente prima del delitto, così il delitto non può capovolgere nel contrario questa incerta natura della vostra proprietà. Certo lo Stato assicurerà il vostro interesse privato, per quanto è possibile assicurano, per mezzo di leggi razionali e di razionali norme preventive; ma lo Stato non può concedere alla vostra pretesa privata contro il delinquente alcun altro diritto, se non quello delle pretese private la protezione della giurisdizione civile. Se in questo modo, a causa della povertà del delinquente, non potete procurarvi alcun risarcimento, ne consegue unicamente che è venuta meno ogni via giuridica per questo risarcimento. Il mondo non esce per questo dai cardini, lo Stato non abbandona per questo la strada solare della giustizia e voi avete sperimentato la caducità di tutte le cose terrene; esperienza che alla vostra solida religiosità non sembrerà una novità eccitante o più meravigliosa delle tempeste, dell'incendio e della febbre. Ché, se lo Stato volesse fare del delinquente un vostro temporaneo possesso sacrificherebbe l'immortalità del diritto al vostro finito interesse privato. Esso dimostrerebbe quindi al delinquente la caducità del diritto, mentre deve dimostrargliene l'immortalità attraverso la pena.

Quando Anversa, ai tempi del re Filippo, avrebbe potuto tener facilmente lontani gli spagnoli inondando il proprio territorio, la corporazione dei macellai non lo permise perché aveva nelle praterie i suoi buoi grassi. [Il tatto si verificò durante l'assedio di Anversa del 158485 da parte delle truppe di Filippo 11, re di Spagna, che erano state mandate a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi.]

Voi esigete che lo Stato rinunci al proprio territorio spirituale affinché il vostro pezzo di legno sia vendicato.

C'è ancora qualcosa da dire a proposito di alcune disposizioni secondarie del paragrafo 16.

Un deputato delle città osserva:

Secondo la legislazione vigente otto giorni di carcere venivano equiparati ad una multa di cinque talleri Non c'è motivo plausibile per discostarsene (ossia di stabilire quattordici giorni anziché otto).

Al medesimo paragrafo la commissione aveva proposto la seguente aggiunta:

che in nessun caso la pena carceraria dovrebbe durare meno i ventiquattro ore.

Quando si osservò che questo minimo sarebbe riuscito troppo elevato, un membro della nobiltà addusse in contrario,

che la legislazione forestale francese non contiene misura penale inferiore ai tre giorni.

La stessa voce che in contrasto con la disposizione della legge francese equipara cinque talleri a otto anziché a quattordici giorni di prigione, è restia, per devozione alla legge francese, a mutare i tre giorni in ventiquattro ore.

Il sopra menzionato deputato delle città osserva inoltre:

In caso di asportazioni di legna, che peraltro non si possono sempre considerare come reato meritevole di severa punizione, sarebbe almeno molto duro commutare un'ammenda di cinque talleri in quattordici giorni di carcere. La cosa avrebbe la conseguenza che chi ha mezzi e può riscattarsi col denaro verrebbe punito una sola volta mentre il povero verrebbe punito doppiamente.

Un rappresentante dei cavalieri fa presente che nei dintorni di Cleve molta gente commetterebbe trasgressioni forestali semplicemente per esser accolta nelle prigioni e ricevere il vitto carcerario. Questo rappresentante dei cavalieri non dimostra proprio ciò che vuole ribattere, e cioè che il mero bisogno di difendersi dalla fame e dalla mancanza di un tetto spinge la gente a trasgressioni forestali? Forse che questo atroce bisogno costituisce una circostanza aggravante?

Il suddetto deputato delle città dice di

dover ritenere troppo grave, e in particolare del tutto inapplicabile nei casi di lavori punitivi, la già criticata riduzione del vitto.

Da più parti viene osservato che la riduzione del vitto fino al solo pane e acqua è troppo grave. Un deputato della campagna osservò che nel distretto di Treviri la riduzione del vitto era già applicata e si era dimostrata molto efficace.

Perché mai l'egregio oratore vuoi trovare la causa del buon effetto ottenuto a Treviri proprio nel pane e acqua, e non piuttosto nel rafforzamento dello spirito religioso, di cui la dieta ci ha saputo parlare tanto e in modo così commovente? Chi avrebbe mai immaginato che pane e acqua fossero i veri strumenti della grazia? In taluni dibattiti si poteva credere di veder riprodotto il parlamento inglese dei santi. [Il riferimento è all'ironico appellativo di parlamento dei santi, che venne dato al piccolo parlamento convocato da Cromwell nel luglio 1653. Ad esso appartenevano molti rappresentanti di comunità chiesastiche i cui programmi radicaleggianti erano rivestiti sotto forme mistico-religiose.]

Ed ora? Invece di preghiere e fede e salmi, pane e acqua, carcere e lavoro forzato nei

boschi! Quanto si era generosi di parole per procurare un seggio in cielo agli abitanti della Renania! Quanto si continua ad esser generosi di parole per stremare un'intera classe di cittadini renani a pane e acqua in lavori forzati nei boschi! E’ una trovata che un proprietario di piantagioni olandese appena si permetterebbe verso i suoi negri. Cosa dimostra tutto ciò? Che è facile fare i santi quando non si vuoi essere umani. Così si comprende il passo:

Un membro della dieta trovò inumana la disposizione del paragrafo 23; nondimeno essa venne approvata.

Tolta l'inumanità, di questo paragrafo non sappiamo altro.

Tutta la nostra esposizione ha mostrato come la dieta abbia degradato il potere esecutivo, le autorità amministrative, l'esistenza dell'accusato, l'idea dello Stato, il delitto stesso e la pena a strumenti materiali dell'interesse privato. Si troverà conseguente che anche la sentenza del tribunale venga trattata come semplice mezzo e la sua validità giuridica definitiva come una formalità superflua.

Nel paragrafo 6 la commissione propone di cancellare l'espressione «definitivamente valida», poiché ad accoglierla verrebbe dato in mano al ladro di legna nei casi di accerta mento contumaciale un mezzo per sottrarsi all'aggravamento di pena per recidiva. Molti deputati protestano ed osservano che bisognerebbe opporsi all'esclusione dal progetto dell'espressione «sentenza definitivamente valida», proposta dalla commissione Tale qualificazione della sentenza non è certo stata accolta in questo punto e nel paragrafo senza ponderazione giuridica. Senza dubbio si raggiungerebbe più facilmente e frequentemente l'intento di applicare una pena più severa nei casi di recidiva, qualora ogni sentenza di prima istanza bastasse a motivare l'applicazione della pena pii severa. C'è però da considerare se in questo modo non si intenda sacrificare un principio giuridico essenziale all'interesse della protezione forestale messo innanzi dal relatore. Non si potrebbe infatti consentire che in violazione di un principio indiscutibile della procedura venga attribuita una tale efficacia a una sentenza che non possiede ancora alcuna consistenza giuridica. Un altro deputato delle città suggerì del pari il rigetto dell'emendamento proposto dalla commissione. Esso urterebbe con le disposizioni del diritto penale, in base alle quali non si può mai avere un aggravio di pena, se la prima pena non è stata irrogata da una sentenza definitivamente valida. Il relatore risponde che «si tratta nell'insieme di una legge eccezionale, e quindi è ammissibile anche una disposizione eccezionale come quella proposta». La proposta della commissione per la cancellazione di «definitivamente valida» è approvata.

La sentenza esiste soltanto per constatare la recidiva. All'avida irrequietezza dell'interesse privato le forme legali sembrano ostacoli molesti e superflui di un pedantesco formalismo giuridico. Il processo è solo un sicuro salvacondotto per la prigione che si dà all'avversario, una mera preparazione all'esecuzione; e se pretende di essere più di questo, viene messo a tacere. L'angosciato egoismo spia, calcola, considera con ogni cura i modi in cui l'avversario potrebbe sfruttare a proprio vantaggio il terreno del diritto che, come un male necessario, si deve percorrere per colpirlo, e cerca di prevenirlo con le più avvedute contromanovre. Nei far valere sfrenatamente il proprio privato interesse si urta nello stesso diritto come in un ostacolo, e lo si tratta come tale. Si mercanteggia, si contratta con esso, gli si detrae qua e là un fondamento, lo si tacita facendo i più supplichevoli appelli al diritto dell'interesse gli si batte sulla spalla, gli si sussurra all'orecchio. «Si tratta di eccezioni, e non c'è regola senza eccezioni». Si cerca di risarcire il diritto col terrorismo e con la minuziosità che gli si consente verso il nemico, in cambio della oscena rilassatezza di coscienza con cui lo si tratta quale garanzia dell'imputato e quale oggetto a sé stante. L'interesse del diritto può parlare nella misura in cui è il diritto dell'interesse, ma deve tacere non appena contrasta con questo sacro principio.

Il proprietario forestale, lo stesso che ha stabilito la pena, è tanto conseguente da fungere egli stesso anche da giudice, ed egli evidentemente funge da giudice col dichiarare definitivamente valida una sentenza che non lo è. Non è veramente pazzesca e ingenua illusione quella di un giudice imparziale, quando parziale è già il legislatore? Che ci sta a fare una sentenza disinteressata, se la legge è interessata? Il giudice può soltanto dare una formulazione puritana all'egoismo della legge, e applicarla senza riguardi. L'imparzialità riguarda allora solo la forma, non il contenuto della sentenza. Il contenuto è stato anticipato dalla legge stessa. E se il processo non è più altro che una forma senza contenuto, una simile inezia formale non possiede alcun valore per sé stante. Secondo questo modo di pensare il diritto cinese diventerebbe francese, purché lo si rivestisse della procedura francese. Ma il diritto materiale ha una sua propria forma processuale necessaria e innata e, come nel diritto cinese è necessario il bastone, come al contenuto della giustizia penale medievale appartiene necessariamente la tortura come forma processuale, così al libero processo pubblico appartiene un contenuto che per propria natura è pubblico, dettato dalla libertà e non dal privato interesse Il processo e il diritto sono indifferenti l'uno rispetto all'altro tanto poco quanto le forme delle piante e degli animali sono indifferenti rispetto alla carne e al sangue degli animali stessi. Dev'essere un unico spirito ad animare il processo e le leggi, poiché il processo non è altro che il modo di vivere della legge, dunque la manifestazione della sua vita interiore.

I pirati di Tidong [è una regione del Borneo] per non farsi scappare i prigionieri, rompono loro braccia e gambe. Per non farsi scappare i trasgressori forestali la dieta non solo ha spezzato gambe e braccia al diritto, ma altresì ne ha trapassato il cuore. Noi riteniamo che il merito di essa per aver reintrodotto alcune categorie della nostra procedura sia assolutamente nullo; dobbiamo invece apprezzare la franchezza e coerenza con cui a un contenuto non libero si dà una forma non libera. Se si introduce materialmente nel nostro diritto l'interesse privato, che non sopporta la luce della pubblicità, gli si dia anche la sua forma adatta, un andamento furtivo, affinché almeno non venga risvegliata e nutrita alcuna illusione pericolosa e fatua. Riteniamo dovere di tutti i renani, e specialmente dei giuristi renani, dedicare in questo momento tutta la loro attenzione al contenuto del diritto affinché infine non ce ne resti fra le mani altro che la maschera vuota. La forma non ha alcun valore, se non è la forma del contenuto.

II progetto della commissione sopra illustrato e il voto favorevole della dieta costituiscono il nocciolo di tutto il dibattito, poiché qui penetra nella coscienza stessa della dieta la collisione fra l'interesse della protezione forestale e i fondamenti del diritto sanciti dalla nostra legislazione.

La dieta è stata chiamata a decidere se sacrificare i principi del diritto all'interesse della protezione forestale o viceversa, e l'interesse ha battuto il diritto. Si è perfino riconosciuto che l'intera legge è una eccezione alla legge, e se ne è quindi dedotto che in essa diventa ammissibile qualunque disposizione eccezionale. Ci si limitò a tirare conseguenze che il legislatore aveva trascurato. In tutti i casi nei quali il legislatore dimenticò che si tratta di una eccezione alla legge e non di una legge, nei quali egli fa valere il punto di vista giuridico, ivi subito interviene energicamente la nostra dieta a rettificare e ad aggiungere con tatto sicuro, facendo si che dove il diritto dettava legge all'interesse privato, sia adesso l'interesse privato a dettar legge al diritto.

La dieta ha dunque adempiuto completamente il proprio compito. Essa ha fatto esattamente ciò a cui è chiamata [«Wozu er berufen ist», nel doppio senso di «per cui è convocata» e «per cui ha vocazione»]: ha rappresentato un determinato interesse particolare e ne ha fatto il fine supremo. Che così facendo abbia calpestato il diritto è una semplice conseguenza del suo incarico, poiché l'interesse è per sua natura istinto cieco, senza misura, unilaterale, in una parola istinto naturale senza legge. E potrebbe forse dar leggi ciò che è senza legge? Col metterlo sul trono del legislatore, l'interesse privato viene abilitato a legiferare tanto poco, quanto un muto, cui si dà in mano un megafono di enorme lunghezza, viene abilitato a parlare.

Solo con ripugnanza abbiamo seguito questo noioso e scipito dibattito, ma ritenemmo nostro dovere mostrare con un esempio quanto ci sia da aspettarsi da un'assemblea per ceti degli interessi particolari, qualora venisse seriamente chiamata a legiferare.

Ripetiamo ancora una volta che i nostri deputati provinciali hanno compiuto il loro dovere di deputati provinciali, ma siamo ben lontani dal voler con ciò giustificarli. In essi il renano avrebbe dovuto avere la meglio sul deputato provinciale, l'uomo sul proprietario forestale. Ad essi è legalmente affidata non solo la rappresentanza dell'interesse particolare, ma anche la rappresentanza dell'interesse della provincia, e, per quanto contraddittori siano questi due incarichi, in caso di conflitto non si sarebbe dovuto esitare neanche un momento a sacrificare la rappresentanza dell'interesse particolare alla rappresentanza della provincia. Il senso del diritto e della legge è il provincialismo più caratteristico dei renani; ma si comprende da sé come l'interesse particolare non conosca né patria, né provincia, né spirito universale, né spirito locale. In opposizione diretta alle affermazioni di quegli scrittori immaginosi che in una rappresentanza di interessi particolari amano trovare un ideale romanticismo, profondità d'animo insondabili e la fonte più ricca di forme individuali e caratteristiche di eticità, una simile rappresentanza sopprime invece tutte le distinzioni naturali e spirituali, in quanto pone sul trono in loro vece l'astrazione immorale, assurda e senza cuore di una determinata materia e di una determinata coscienza soggetta ad essa come schiava.

La legna rimane legna in Siberia come in Francia; il proprietario forestale rimane proprietario forestale in Kamatka come nella provincia renana. Quindi, allorché la legna e il proprietario di legna come tali fanno leggi, queste leggi non si distingueranno per altro che per la posizione geografica e la lingua in cui vengono formulate. Questo abietto materialismo, questo peccato contro lo spirito santo dei popoli e dell'umanità è una conseguenza immediata della dottrina predicata al legislatore dalla «Preussische Staats-Zeitung», cioè la dottrina secondo cui nel caso di una legge forestale si debba pensare esclusivamente alla legna e al bosco e non risolvere i singoli problemi concreti politicamente, ossia in relazione alla complessiva ragione e morale dello Stato.

I selvaggi di Cuba ritenevano che l'oro fosse il feticcio degli spagnoli: lo festeggiarono con cerimonie e canti, quindi lo gettarono in mare. Se i selvaggi di Cuba avessero assistito a una seduta dei deputati provinciali renani, non avrebbero pensato che il legno fosse il feticcio dei renani? Ma una successiva seduta avrebbe loro insegnato che al feticismo si collega il culto degli animali, e i selvaggi di Cuba avrebbero gettato in mare le lepri per salvare gli uomini. [Allusione al progetto di legge, in discussione alla dieta, sui reati di caccia, che toglieva ai contadini perfino il diritto di cacciare le lepri sui propri terreni.]